Mimmo Mancini: cosa rimane del cinema indipendente tra
crisi, politica e cultura
Nello scorso numero di MuratTiamo vi abbiamo raccontato un
po’ la storia di Ameluk e di come sia difficile far emergere il cinema
indipendente nell’Italietta da “grande schermo”. Abbiamo quindi scelto di farci
una chiacchierata direttamente con il regista di Ameluk, Mimmo Mancini, per
osservare più da vicino la relazione tra crisi e cultura.
Da LaCapaGira ad oggi, cos’è cambiato nel cinema italiano?
Rispondere con cognizione di causa ed onestà intellettuale è
abbastanza impegnativo. Ci provo. Parliamo di circa 15 anni, l’età di mio
figlio Paolo, per capirci e materializzare la quantità di tempo e di eventi che
si sono succeduti in questo frammento di mondo vissuto.
Da LaCapaGira ad oggi, o meglio: da un Oscar all’altro. Mi
balza in mente un'immagine: l’inaugurazione di un cinema parrocchiale a Santo
Spirito, ristrutturato in sala di buona qualità che tutt’oggi esiste. Quel
lontano 1999, oltre al pubblico, in sala c'erano Oscar Jarussi, scrittore e
critico cinematografico della Gazzetta del Mezzogiorno; Sergio Rubini, attore
regista; Domenico Procacci, produttore editore, ed io. In quell’occasione Jarussi
parlava della Puglia attraverso il cinema, presentando un suo libro
sull'argomento. Allora erano ancora pochi i titoli dei film italiani e
stranieri realizzati in quella terra, ma LaCapaGira stava per segnare il suo destino e un nuovo periodo per il cinema
indipendente: da quell’anno, di film in Puglia ne hanno girati tantissimi, dal
Gargano a Santa Maria di Leuca. Questo è il primo dato importante: l'efficacia
dell’Apulia Film Commission e delle Film Commission in generale, che hanno
rivoluzionato la distribuzione del cinema italico e straniero su tutto il
territorio nazionale.
Dunque una vera e propria decongestione della scena
romana...
Quadruplicate le presenze dei set, formate e coinvolte tante
figure professionali (tra discutibili e ottime) che addirittura hanno lasciato
Roma, capitale dalla vita carissima e dagli scarsi stimoli, ma comunque
capitale di un cinema italiano ricco per eredità e non certo per nuovi fermenti
creativi. Ebbene si, lo smantellamento della concentrazione di cinema nella capitale,
l’ha causato proprio l’efficacia delle Film Commission italiane, prima di tutte
quella del Piemonte. Poi la Puglia, la Toscana, fino al boom attuale del
Trentino, dove ormai si gira di tutto, anche film sull’Africa e sugli elefanti-
pessima battuta per dire che pare abbiano molti soldi da investire in cinema e
televisione senza un perché, e allora... Io però non vorrei mai vedere
Cinecittà chiudere: piuttosto vorrei vedere nuove persone capaci di gestirla e
non permettere più a nessuno di girare in Marocco, Romania, Bulgaria, Serbia,
Argentina con i soldi delle tasse del popolo italiano. Salviamo Cinecittà dai
papponi e dalla politica.
Oggi quindi parliamo di low budget anche nel cinema?
Low budget: una parola molto usata da LaCapaGira in poi, nel
cinema italiano e nella fiction ex opulenta.
È cambiato il modo di riprendere il cinema a tutto tondo. Oggi il cinema
low low, senza budget, è più accessibile e chiunque può provarci, grazie alla
tecnologia che ha contribuito a questa grande rivoluzione.
Certo non giri un kolossal, ma piccole storie, prodotte da
nuove produzioni o da ex grandi in difficoltà: storie che si realizzano con
dignità tecnica ma non certo con dignità umana ed economica.
E qui veniamo ad un altro grande cambiamento...
Il dimezzamento delle paghe tra tecnici e attori, e forse
anche per i produttori. Dimezzamento che se riferito ai cachet opulenti di un
tempo offerti alle star va benissimo: era ora di smetterla nel destinare più di
metà budget su pochi Conti Correnti. Però non condivido la riduzione delle già
ridotte paghe destinate a tutti i tecnici e attori magari bravi, seri, onesti e
disponibili (parliamo di una buona percentuale), ma ahimè non decorati o
lustrinati (da chi poi?). Nel caos degli ultimi 15 anni sono sparite anche quelle
poche regole sindacali, ottenute con sacrifici e dure lotte da illustri
personaggi del cinema; ed è sparita un bel po' di dignità professionale e
umana.
Il ruolo della politica in merito?
Film girati a metà, mai usciti perché non commestibili
nemmeno sul piccolo schermo; una giungla di pseudo produttori di una pseudo
sinistra che ha contribuito alla morte delle piccole produzioni. Alla fine è
emersa una nuova idea di cinema: aggressivo, senza regole o con nuove regole
che arrivano dalla televisione che in questi 15 anni ha divorato tutto. Nuove
ricette, nuove strategie: non c’è più bisogno di bravi sceneggiatori, bravi
registi, sedute fiume di scrittura a due, a tre o a quattro. Non si costruisce
più un film con le mani delle maestranze negli studi: tutto gira intorno a un
tavolo di qualche ufficio tra sponsor, politica, consulenze ben pagate, uffici
marketing, esperti della comunicazione. Persino le raccomandazioni sono
cambiate: prima erano velate, coperte da discrezione; ora i raccomandati ne
hanno fatto un motivo di vanto e di sputtanamento spontaneo: “se non sei
raccomandato, non sei nessuno”. Un proliferare di starlette e di stalloni
incapaci d’intendere e volere ma intoccabili, grazie alla politica tutta e
senza escludere nessun simbolo. Certo c’è chi l’ha fatto alla luce del sole e
chi ha continuato a farlo sottobanco, anzi sotto coperte.
E la domanda aumenta, solo per ingrassare follemente le fila
di giovani generazioni dell’immagine e dell’apparire, nuovi disoccupati senza
nessuna speranza, figli di uno spettacolo privo di tutto, anche del sipario.
La solita forbice tra quantità e qualità insomma.
Più produzioni non portano necessariamente più cinema di
qualità, però la nota positiva è che se vuoi realizzare una tua idea puoi
farcela. Unico problema resta la distribuzione. Non basta una buona storia:
prima di tutto serve la distribuzione, coinvolgere investitori, marchi, banche:
la famosa tax credit.
Servono nomi di star gradite al sistema, utili per avere il
denaro e la pubblicità dalla RAI o da Medusa. Più nomi hai, più soldi ricevi.
Se la storia non è il massimo, fa nulla, tanto tra diritti ceduti alle tv,
vendita pur minima e misera all’estero, pochi spiccioli ma che fanno sempre
comodo, tra ministero e film commission, tra comunità europea e tax credit
delle banche...
Come si può risolvere questo problema?
Quindici anni non sono tanti rispetto a una stella, ma sono
tanti per descrivere un settore così difficile da analizzare in un solo
articolo. Sono quindici anni da setacciare giorno per giorno, anno per anno,
ottima materia per una tesi di laurea. Una tesi che sia anche una denuncia su
tutto quello che in questi quindici anni ha contribuito a far del male al
nostro cinema italiano. Non basta un Oscar per dire che il cinema italiano è
salvo, è vivo, è in ripresa. Così come non è bastato quindici anni fa. A mio
modestissimo parere ci sono molte luci che ancora tengono duro e cercano di non
spegnersi nel cinema italiano, ma ci sono anche molte ombre che vanno
illuminate e presto, ma in ogni settore e non solo sul cinema italiano.
“Mi piacciono le facce proletarie, quelle che raccontano
qualcosa di vero, di autentico e noi, che gli zingari del Montenegro li abbiamo
conosciuti, li riconosciamo nel vecchio con i denti di oro di Kusturica. E lui
ha avuto la grande intelligenza di mettere insieme queste facce, di raccontare
le storie che appartengono al genere
umano e non solo all’ex Jugoslavia, non ha avuto che l’intuizione di dire
<<racconto io per voi ma siete voi i veri protagonisti>>. Spero ci
sia anche in Puglia un regista capace di raccontare certe storie e di scegliere
le belle facce proletarie che non mancano e che ne avrebbero di cose da
dire. LaCapaGira non è un capolavoro ma
sicuramente può essere un punto di
partenza. Siamo solo agli inizi.
Tempo fa mi sono rivolto dal sig. De Santis, grosso
produttore di olio che esporta in tutto
il mondo; gli avevo chiesto un piccolo budget di dieci milioni per la
realizzazione di un cortometraggio in cui c’era anche lo spazio per parlare
della lavorazione dell’olio. Mi ha risposto di non essere assolutamente
interessato, e tutto ciò detto con un certo disprezzo.
Perché i signori industriali pugliesi, e sono tanti, non
decidono di fare qualcosa in questo settore? Mi è stato detto che Fellini i
primi film li ha realizzati grazie ad alcuni negozianti romani che hanno fatto
una specie di colletta per farglieli finire”.
Quest’ultimo virgolettato fa parte di un’intervista fattami
da una laureanda (allora, oggi laureata e disoccupata poverina, che non nomino
per riservatezza e rispetto) in Scienze della Comunicazione. Fa parte della sua
tesi. La ripresento per alcuni dati e per alcune mie osservazioni che risalgono
appunto a circa dieci anni fa. Mi fa pensare che le cose non siano cambiate poi
così tanto.
Nessun commento:
Posta un commento